Quando imparammo a leggere
A quanto pare ci fu un momento nella nostra vita in cui cominciammo effettivamente a raccogliere i segni disposti sulla superficie di un foglio, o di una pietra, e ne cominciammo a comprendere il possibile significato.
Chiamammo quell’esperienza col nome di lettura e, da allora, così come per Adamo ed Eva, iniziammo ad assaporare il frutto della conoscenza.
Prima di quella scoperta, invero, eravamo rimasti affabulati dai racconti dei nostri genitori che ci insegnarono a vivere invitandoci a leggere il nostro volto in quello degli altri. Giorno dopo giorno, pendemmo dalle loro labbra e l’attesa suscitata dalle nuove agnizioni ci rivelò l’ambiguo piacere dell’esistenza; poi. nostro padre e nostra padre, senza rendersene conto, ci tradirono insegnandoci a leggere i segni della memoria della comune umanità, cosicché
l’attesa di quelle rivelazioni si trasferì altrove, nella casa della scrittura là dove Sheherazade, ormai, era morta.
Rimanemmo soli in questa nuova casa? Oppure ci vennero incontro nuovi amici?
Ricordo che, dapprima, nei nuovi segni cercammo le emozioni provate nei “cunti” che ci avevano cullato; subito dopo, vi cercammo anche l’avventura di nuove scoperte, di nuove emozioni, di nuove storie.
A casa, solo mia madre “perdeva il tempo” a leggere. Io amavo questo suo tempo perché, appresso, l’avrebbe liberato per me, invitandomi a farmi tentare dall’incontro con quelle pagine dalle quali lei aveva appreso a dare consistenza alle speranze.
Fu così che cominciai a leggere tutto: dai pochi libri che mi regalavano alla cartata dove stava avvolto il pesce appena comprato, dai libri di scuola dei compagni più adulti ai manifesti affissi sui muri.Fu così che, avendo compreso che il mondo attorno a me poteva essere letto, mi domandai – e mi domando ancora – se questo mondo fosse stato scritto da uomini e donne che, proprio per questo, erano capaci di leggerlo oppure “altro” da me, da noi, l’aveva scritto e, pertanto, leggerlo ci costa ancora qualche fatica.
E adesso, ogni qualvolta confronto le mie parole intorno all’esperienza del leggere con quelle altrui, m’imbatto – quasi una proposta, un confronto – in un racconto nuovo che inevitabilmente interseca la comune esistenza. In queste occasioni, e nei conseguenti dialoghi, spesso mi si dona l’emozione uscitata dalla lettura di un classico, di una sonata, di un libro proibito, di un mosaico, di un “giallo”, di un “fumetto”; qualcuno, inoltre, mi ha confidato che proprio leggendo ha salvato la sua anima e, continuando a leggere, ha cambiato vita.
Concordiamo che ciò possa essere accaduto, che accada e continuerà ad accadere; nello stesso tempo, desidererei che, insieme, riconoscessimo che la volontà di leggere non solo ci ha aiutato a crescere ma, soprattutto, ci ha divertito, nel senso che ci ha spinto a fare cose diverse.
Dirimpetto alla lettura sta la scrittura, anche quella fotografica che è, secondo il suo etimo, scrittura di luce.
Da venticinque anni i fotografi A.C.A.F. prelevano nella realtà quotidiana dei giorni vissuti le immagini che servono per rappresentare le loro idee: si guardano intorno, vedono e, resi paradossalmente poveri da questa visione, raccolgono quel che la stessa realtà deposita lungo la linea dei loro occhi, del loro cervello, del loro cuore; leggono il mondo e, continuamente, riscrivono l’esperienza di questa lettura dando forma al tempo, dimensione all’istante e significato all’invisibile.
Sono uomini e donne abituati a conoscere e valutare le arti e le opere umane, a svolgere una funzione critica utilizzando un’appropriata metodologia d’analisi che permette loro di esprimere il linguaggio e la capacità del mezzo fotografico per mettere, infine, la compiuta rappresentazione a disposizione della comunità. Le loro opere, per adesso, stanno qui in quest’universo (oh Borges!) che altri chiamano biblioteca. Gli autori? Beh, loro non sono presenti e se lo fossero, dovrebbero stare in rispettoso silenzio, seduti ed assorti perché qui i libri sono anche custoditi. Così come lo sono le loro immagini fotografiche che, appese, non urlano a, al più, fanno l’occhiolino; meglio, silenziosamente ci distraggono domandandoci il senso di quanto andiamo facendo.
Nella circostanza di “Leggere è”, i fotografi che le hanno realizzate hanno, infatti, proposto a noi tutti, ed a loro in primis, di cercare la natura di quel predicato nominale da aggiungere al titolo della mostra.
Per ogni immagine esposta in questa storica sala, occorre quindi aggiungere e completare, secondo la soggettiva esperienza e seguendo la propria intima emozione, il personale modo di vivere la lettura (conoscenza, riposo, diletto, passione, curiosità, evasione, etc.).
Se volete, pensate pure che queste proposte fotografiche, nella loro semplicità, sono anche dei ritratti che parlano del vostro volto e, lo ripetiamo, dell’esperienza dei vostri occhi, della vostra mente, del vostro cuore.
Siamo in una biblioteca e de vobis narratur.
Pippo Pappalardo
Galleria foto Leggere è …. Collettiva Fotografica – 2015
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